mercoledì, dicembre 15, 2010
Un'altra riflessione interessante di WuMing1
Dopo Genova, nessuno si sentiva sconfitto. Tutti pensavano che fosse l’inizio di qualcosa. Vi furono altre scadenze, il movimento andò avanti ancora un anno e mezzo abbondante, e in alcuni passaggi i numeri furono alti e gli appuntamenti significativi (es. il Forum Sociale di Firenze). Poi, a un certo punto, ci si guardò intorno e ci si accorse di essere molto più “indifferenziati” e monocromatici, molto meno eterogenei di prima. La composizione del movimento non era più quella degli inizi, le linee di frattura tra le “componenti” erano sempre più visibili, le assemblee sempre più mono-genere (tutte maschili o quasi) e “veteranizzate” (c’era quasi solo chi era stato a Genova). Ci si accorse che si era formato un “ceto politico-mediatico di movimento”, un ristretto gruppo di portavoce che più appariva e più contribuiva a stereotipizzare il movimento. Ci si accorse che tutte le espressioni che descrivevano il molteplice (come “movimento dei movimenti”) erano scomparse dal discorso pubblico, e al loro posto si erano radicate, inestirpabili, etichette che ghettizzavano (“i no-global”). Solo a quel punto si capì che Genova non era stata un inizio ma una fine di ciclo, che la metafora dell’assedio aveva funzionato all’inverso (gli assediati eravamo noi, chiusi nel nostro mondo), e che senza nemmeno farci caso avevamo *escluso* sempre più gente, fino a ritrovarci a essere quello che avevamo inteso superare: la solita estrema sinistra.
Dopo Genova, nessuno si sentiva sconfitto. Tutti pensavano che fosse l’inizio di qualcosa. Vi furono altre scadenze, il movimento andò avanti ancora un anno e mezzo abbondante, e in alcuni passaggi i numeri furono alti e gli appuntamenti significativi (es. il Forum Sociale di Firenze). Poi, a un certo punto, ci si guardò intorno e ci si accorse di essere molto più “indifferenziati” e monocromatici, molto meno eterogenei di prima. La composizione del movimento non era più quella degli inizi, le linee di frattura tra le “componenti” erano sempre più visibili, le assemblee sempre più mono-genere (tutte maschili o quasi) e “veteranizzate” (c’era quasi solo chi era stato a Genova). Ci si accorse che si era formato un “ceto politico-mediatico di movimento”, un ristretto gruppo di portavoce che più appariva e più contribuiva a stereotipizzare il movimento. Ci si accorse che tutte le espressioni che descrivevano il molteplice (come “movimento dei movimenti”) erano scomparse dal discorso pubblico, e al loro posto si erano radicate, inestirpabili, etichette che ghettizzavano (“i no-global”). Solo a quel punto si capì che Genova non era stata un inizio ma una fine di ciclo, che la metafora dell’assedio aveva funzionato all’inverso (gli assediati eravamo noi, chiusi nel nostro mondo), e che senza nemmeno farci caso avevamo *escluso* sempre più gente, fino a ritrovarci a essere quello che avevamo inteso superare: la solita estrema sinistra.
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